IL GIOCO A PERDERE DELLE RIFORME

Devo tornare sulle riforme costituzionali ed elettorali perché siamo a un nuovo decisivo passaggio. Però, nello scrivere queste opinioni, il disagio è forte. Ben altre difficili situazioni riempiono la cronaca. L’Italia non cessa di essere allo stremo, basta guardarsi intorno. Il Jobs Act riempie le pagine dei giornali con polemiche sempre vive sui licenziamenti individuali e collettivi. L’Europa è al bivio della Grecia, ai confini c’è l’Ucraina. La Libia è tragicamente più vicina e il Governo ha parlato perfino di interventi militari. Veramente non se ne può più di riforme giocate come al Poker. Di nuove istituzioni abbiamo un bisogno urgente, perché la democrazia perde colpi dappertutto, ma i problemi interni e internazionali sono talmente grandi e impegnativi che le riforme si dovrebbero fare bene e nei tempi giusti, e con lo stesso spirito con il quale è stato eletto il Presidente Mattarella. Soprattutto pensando al bene comune e all’unità nazionale, non agli interessi di bottega.

Di questo voglio parlare, chi ha voglia mi dica la sua. Prendo spunto da una “questione limite” (limite?), dal voto sulla cd. dichiarazione dello stato di guerra, articolo 78 della Costituzione. Oggi, con l’attuale Costituzione, la dichiarazione la devono fare entrambe le Camere. La riforma costituzionale prevede invece che sia la sola Camera dei deputati a decidere, a maggioranza assoluta. Quindi, da domani – con l’Italicum – l’Italia potrà entrare in guerra (nei casi rari in cui è consentito dalla Costituzione) senza che lo voglia la stragrande maggioranza dei cittadini, basta che lo decida il partito vincente, magari votato al primo turno solo dal 25% degli elettori. La guerra di partito. Abnorme.

Ho fatto questo esempio perché fa capire, meglio e più semplicemente di altri, quale riforma hanno votato e stanno votando alla Camera dei deputati.

La verità è che in questo febbraio 2015 un ramo del Parlamento eletto con una legge incostituzionale ha approvato, a maggioranza risicata, di notte, in mezzo a mille polemiche, una riforma costituzionale globale; voto finale a marzo. Il Governo, che comanda le operazioni, pare abbia minacciato: o così o elezioni.

Vediamo di intenderci. La riforma costituzionale è pessima. Se si chiede a un elettore distratto è facile che ti risponda che la si fa per sopprimere finalmente il fastidioso e inutile Senato e per punire Regioni ad alto tasso di corruzione. Applausi. Questo è il primo successo delle posizioni governative: aver costruito un largo consenso su parole d’ordine semplici e mistificanti.

Quale sia la verità la lascio a voi, che spero vogliate perdere qualche minuto per verificare, leggendo i testi, cosa sta per diventare la nostra Costituzione (http://documenti.camera.it/leg17/dossier/pdf/AC0500g.pdf). Cosa diventerà la Camera politica, dominata dalla maggioranza dell’Italicum e soggiogata dal Governo, e cosa diventerà lo Stato centrale (a proposito, ci siamo dimenticati dove si è annidata nei decenni la corruzione?).

Ammettiamo pure che Renzi gestirà bene l’immenso potere che si va costruendo intorno, ma se arriva al potere un altro Berlusconi – questa è la democrazia – come la mettiamo? Non ci vogliono raffinati costituzionalisti per capire una cosa semplice: la democrazia è fatta di poteri al plurale, che si controllano a vicenda, non di un’unica linea di comando. Anche qui non insisto, basta girarsi intorno, dare uno sguardo all’America o ai paesi più avanzati dell’Europa per capire cosa vuol dire l’equilibrio dei poteri e il pluralismo delle istituzioni. Perciò, se semplifichi devi sempre stare attento a non ridurre tutto a uno. Lo devi fare non per l’oggi (oggi ti può far comodo se sei un partito come il PD), ma per il domani. Cioè, lo dovresti fare così se sei un vero democratico.

Se sei un vero democratico, non fai troppe leggi delega, ma le scelte vere le fai in Parlamento. Al Governo dai deleghe solo per leggi molto tecniche, e metti in chiaro subito i principi a cui deve attenersi. Non gli dai deleghe in bianco, perché il Governo è “l’esecutivo” non “il legislativo”. Oggi le leggi che delegano il Governo sono come il Jobs Act, una presa in giro, che poi – come s’è visto in questi giorni – il Parlamento dice così e il Governo fa pomì. Ne vedremo altre di deleghe, come sulla scuola, che è buona solo per alcuni, e temo non per quelli che – da precari – se la sono messa sulle spalle per anni e anni.

Per carità, il Parlamento che sta approvando la nuova Costituzione è formalmente legittimo. Però è stato eletto con una legge incostituzionale, questo è certo. Se sei un vero democratico, l’approvi pure in questo Parlamento la riforma, ma cerchi l’intesa con le forze che, insieme a te, rappresentano la maggioranza vera dei cittadini. Renzi, in teoria, questo diceva di sostenere con il patto del Nazareno. Ora quel patto non c’è più. Prima domanda: se il patto era nel merito delle scelte, se le cose sbagliate erano frutto di un compromesso con Forza Italia, perché mai ora che il patto è rotto si va avanti allo stesso modo? Mia conclusione: il patto del Nazareno non era nel merito, era un patto politico (mi dai il voto e ti do qualcosa), è proprio il Governo che vuole questa pessima Costituzione. Perciò va avanti a ogni costo. Solo che, a questo punto, torna il problema della rappresentanza, e il fatto inequivocabile che la Costituzione la stanno votando, da soli, partiti che non hanno la maggioranza nel Paese. Seconda domanda: perché il PD non cerca un’altra maggioranza effettiva? PD, SEL e M5S lo sono. Perfino la Lega ha qualcosa di buono da dire su Senato e regionalismo.

Il Governo pare minacci elezioni se non gli si approva il testo che vuole lui. Se il Governo “tiene in pugno il Parlamento” la cosa non va bene. Lo dico alla sinistra del PD, prima di tutto: dimostrate che non avete paura, visto che in gioco non ci sono i destini individuali ma quelli collettivi. Possibile che solo Fassina e Civati abbiano il coraggio di dire no, in queste condizioni non ci stiamo?

Dunque, se il patto del Nazareno è in crisi, sarebbe bello cogliere l’occasione. Sulla legge elettorale e sulla riforma costituzionale si può, si deve. Lo so che non si vive di legge elettorale e di Costituzione, ma se ci si pensa bene, se ci si ricorda del motto della rivoluzione americana “No taxation without representation”, si capisce che lì, in quelle due riforme politiche ci possono essere o no le premesse indispensabili per una democrazia vera, nella quale ciascuno possa far valere i propri diritti e reclamare il buon governo. A chi dice che la democrazia è vuota perché il potere è fuori dalle istituzioni nazionali, è in Europa, è nella finanza, è nelle lobbies, e dunque non vale la pena di agitarsi tanto, rispondo: no, cari miei, finché c’è una sola decisione che possiamo prendere per la vita di tutti, quella decisione deve essere presa democraticamente, e solo un popolo che conta qualcosa può riuscire a costruire qualcosa di buono.

Dunque, la riforma costituzionale prima di tutto, una buona riforma non l’obbrobrio che stanno votando. Un Senato delle garanzie, eletto dai cittadini, cha faccia da contraltare alla Camera politica, quella che elegge il Governo e che potenzialmente potrebbe – se dominasse il campo da sola – fare il bello e il cattivo tempo sui diritti fondamentali. O, come io preferirei, un Senato vero delle Regioni, come quello tedesco, il migliore sulla piazza. Non come quello che si prepara, per carità, un misto fritto di nominati senza responsabilità verso le proprie comunità. Si sta perdendo l’occasione per riformare veramente le Regioni, non c’è nessun ripensamento sulla forma di governo, non c’è niente su elezioni, sistema fiscale, capacità di governare il cambiamento. Si può fare di meglio. Qualche esempio? Regioni tutte con almeno 1,5 – 2 milioni di abitanti, o lo fanno da sé o ci pensa il Parlamento. Regioni forti, però, con competenze legislative non ridondanti, essenziali e chiare, e tasse sicure e non in mano al Governo. Le leggi importanti per le Regioni fatte insieme dalla Camera e dal Senato, le altre solo dalla Camera. E poi: solo la Camera elegge il Governo, ma il Governo non può comandare il Parlamento, e i deputati possono ricorrere alla Corte Costituzionale se le leggi approvate dalla maggioranza violano diritti costituzionali fondamentali. Niente più province, l’amministrazione fatta dalle Regioni e dai Comuni. Comuni più forti, in prospettiva città vere dove può vivere una efficace democrazia partecipata, tasse sicure anche per loro, che non cambiano ogni anno. Regioni che decidono di come funzionano le istituzioni locali, e ne sono responsabili. Regioni che si occupano veramente del welfare locale, di formazione, istruzione obbligatoria, servizi sociali e socio sanitari, governo del territorio, trasporti e infrastrutture, agricoltura e sviluppo economico locale. Anche di sanità, ma solo per delega statale, perché la tutela della salute è bene primario e tutti i cittadini devono essere sullo stesso piano. Insomma: se vogliamo uscire dal federalismo parolaio della Lega, non possiamo rientrare a capo chino nello statalismo più antico, azzerando di un colpo la storia repubblicana. Anche perché lo Stato non ce la farebbe mai a gestire tutto dal centro.

E poi la legge elettorale. L’Italicum è il figlio del Porcellum, questo è sicuro. Se non c’è più il patto del Nazareno, l’Italicum di Renzi e Berlusconi potremmo mettercelo alle spalle, finalmente liberi. Per chi ha fretta, basta mettere i candidati sullo stesso piano, tutti eletti con le preferenze, niente nominati; e poi un premio di maggioranza più sobrio e rispettoso del pluralismo, non al partito ma alla coalizione vincente, che garantisca la governabilità senza determinare l’assolutismo di maggioranza. Per chi vuole un sistema elettorale più importante, basta spendere un mese in più e approdare a un rinnovato Mattarellum, così si fa contenti il nuovo Presidente della Repubblica e tutti quelli che – almeno a parole – vorrebbero l’uninominale. Questa la racconto meglio, ci vuole poco. Trecento collegi uninominali (di circa 200.000 abitanti ciascuno), dove chi arriva primo è eletto. Un partito, un nome. Voto chiaro e pulito. Ci puoi fare anche le coalizioni (vince quella che arriva prima, è eletto chi prende più voti tra i partiti coalizzati), e perfino le primarie. Poi, su un’altra scheda (c’era anche nel Mattarellum), un altro uninominale, per il recupero proporzionale e, se si vuole, per un premio che permetta alla coalizione che arriva per prima di avere qualche seggio in più e raggiungere così la maggioranza (qualche seggio, ripeto, non l’immensità dell’Italicum). Niente soglia di sbarramento se ammetti il premio. Equilibrio della rappresentanza donna-uomo imponendo ai partiti di presentare nel complesso dei collegi metà donne e metà uomini. Molto Mattarellum, e non c’è bisogno nemmeno del doppio turno, ma lo puoi fare lo stesso. Facile. Così, si portano a casa tutti i risultati che si dicono di voler raggiungere con il pessimo Italicum, ma senza comprimere oltremodo la rappresentanza, la famosa sera delle elezioni si sa chi ha vinto, eccetera eccetera. Però i cittadini contano, decidono chi eleggono, zero nominati. Parlamento vero, rappresentanza piena, governabilità assicurata, nessun rischio di incostituzionalità. Chi dovrebbe essere contrario? Solo quelli che vogliono i nominati e tanto potere nelle mani di pochi. Insomma: senza il ricatto di Berlusconi non ci sono più scuse, se si fanno pasticci è perché si vogliono, non perché li vuole l’ex Cavaliere.

Senza il patto del Nazareno, se è morto veramente, questo e anche di meglio si può fare. In tempi brevi ma in modo giusto, anzi serio. Perché con le istituzioni non si scherza, non si gioca né a Poker né a Rottamino. Il giochi d’azzardo sono sempre a perdere. Non giochiamo così con il futuro della democrazia, almeno stavolta.

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